"E' fatta! E' fatta!", gridavano i parlamentari di Futuro e Libertà, agitando le braccia verso l'alto e stappando bottiglie di spumante. "E' fatta! E' fatta!", berciavano pure gli onorevoli del Partito Democratico, lanciandosi giù dagli scranni del parlamento in una corsa disordinata ad abbracciarsi l'uno con l'altro. Gridavano tutti, gridavano perfino alcuni parlamentari del Pdl, che avevano votato la fiducia e poi all'improvviso avevano preso a gridare "Dimissioni! Dimissioni!" non appena l'imminente sconfitta aveva iniziato a profilarsi sempre più chiara all'orizzonte.
Gridavano di disperazione i fedeli del premier. Qualcuno cercava di raggiungerlo, forse per esprimergli l'ultima e coerente attestazione di stima, forse per asserragliarsi con lui in un'ostinata resistenza. Qualcuno fu colto da vero e proprio panico e tra questi fu il fedele Sandro Bondi a incontrare la sorte più tragica: sentendosi mancare, il ministro della Cultura fu pervaso da un moto di orgoglio e, invece di lasciarsi andare, si gettò a capo chino contro lo spigolo di uno scranno, compiendo un sanguinoso harakiri nell'indifferenza generale. Alcuni deputati, atterriti dalla fine politica del loro signore e maestro, iniziarono a fuggire, spargendo cartelline piene di fogli per tutta la sala, qualcuno inciampando sul corpo ancora rantolante del ministro Bondi, qualcuno calpestando senza ritegno la sua materia cerebrale che si stava sparpagliando sulla lussuosa pavimentazione. Ci fu perfino un onorevole, di cui tacciamo il nome, che vista la mal parata estrasse la pistola e iniziò a gridare scompostamente: "Fatemi uscire di qui! Fatemi uscire di qui o vi ammazzo tutti!"
Poi avvenne l'inimaginabile. Il premier, che fino ad allora era rimasto impassibile al proprio posto, fissando il caos esploso in sala, ebbe un sussulto quando vide irrompere nel salone una piccola folla. "Gli studenti hanno fatto irruzione in Parlamento", pensò qualcuno. Niente di tutto questo. Nell'arena calò il silenzio e in questo clima di sospensione avanzò, facendosi largo tra gli altri uomini appena entrati, un uomo basso, vestito male, con la barba incolta, il volto scavato. Camminava appoggiandosi a Gianni Letta e, benchè i suoi lineamenti fossero quasi trasfigurati dalle privazioni patite, nessuno, nemmeno i parlamentari dell'opposizione, riuscì a negare a sè stesso di avere riconosciuto quell'uomo. Era l'esatta copia di quel premier che pensavano di avere appena abbattuto. Per quanto potesse apparire incredibile, era lui.
"Mi hanno sequestrato per dieci anni", gridò. E corse incontro al suo doppio seduto sul trono del premier, che tentò invano di tirarsi indietro. Lo afferrò per una guancia e con uno strappo gli sfilò dal viso una maschera di gomma. "Mi hanno sequestrato per dieci anni - ansimò di nuovo l'uomo - E mi hanno sostituito con questo volgare impostore". Sotto la maschera, un omino qualunque guardava tutt'intorno con gli occhi atterriti di un ratto in trappola. L'uomo magro e con la barba incolta fissò tutti, con uno sguardo che mescolava rimprovero e fierezza. E tutti riconobbero in lui quel viso che avevano visto in Parlamento negli anni Novanta e mille volte in televisione. Poi si lasciò andare, esausto, e in molti accorsero a sorreggerlo e rimetterlo in piedi. "Come avete potuto scambiare questo imbroglione per me per tanti anni?", sussurrò il vero premier al suo fidato amico, Gianfranco. E questi iniziò a piangere e se lo strinse e singhiozzò: "Mi dispiace, mi dispiace, non potevo immaginare, ma adesso è tutto finito. Sei libero. Chiariremo le responsabilità. Chiuderemo i conti. Ripartiremo da capo, da amici". E così gli ex alleati, con Casini in testa che gridava: "Questo scempio deve essere indagato a fondo. Adesso è l'ora della responsabilità e della solidarietà". E infine Bersani, che inginocchiandosi vicino all'uomo, che per anni aveva creduto fosse un suo avversario, gli sussurrò dolcemente: "Ti hanno rubato quelli che potevano essere dieci anni di grande politica. Noi, no, non ti faremo mancare questa seconda occasione".
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